Questo è stato per me un articolo piuttosto difficile da scrivere. Il rischio di essere frainteso, giudicato arrogante, o semplicemente bollato come incompetente, era ed è molto alto. E magari non senza una qualche ragione. Ma questo blog è il mio diario di bordo e volevo registrare in qualche modo un momento di passaggio forse importante e comunque travagliato. L’argomento dell’articolo, lo show don’t tell e i suoi effetti sulla scrittura, non è l’unico su cui in questo periodo sto riflettendo. Ci sono altri aspetti, ma in questa fase è forse quello per me più rilevante, dunque è da qui che partirò.

Tutto nasce dal rilascio del mio primo romanzo, Baby Boomers, e dai successivi, inevitabili, ritorni da parte dei lettori, in particolare dei lettori tecnici, di quelle persone cioè che scrivono loro stesse, ma ancora di più da quelle che fanno mestieri legati all’editoria. In breve, degli esperti del settore editoriale, che di scrittura ne sanno e che con la scrittura ci campano, o almeno tentano di farlo.

Poiché tra i pochi obiettivi che mi sono posto nel portare avanti sia il blog che la mia attività di scrittura c’è quello di essere comprensibile da tutti, o almeno dal maggior numero di persone possibile, farò una breve premessa per spiegare il concetto di show don’t tell, in maniera semplificata e per come l’ho capito io. Chi conosce a menadito il concetto può leggere il seguente paragrafo per sapere come la vedo, oppure saltarlo a piè pari e proseguire la lettura con il successivo.

Show don’t tell

Lo show don’t tell è uno dei principi forse più conosciuti e utilizzati nei corsi di scrittura creativa. L’idea di base è quella che un brano narrato (tell), abbia un impatto emotivo sul lettore molto più debole, e risulti più noioso da leggere, rispetto a un brano che trasmetta le medesime informazioni utilizzando non la narrazione ma piuttosto la descrizioni di azioni e dialoghi (show). Poiché un esempio spesso riesce a spiegare più di mille parole, eccovene uno, tratto dalla voce Wikipedia sull’argomento. Prima il tell, poi la stessa narrazione ma con lo show:

Cinque anni fa, John Meadows sposò Linda Carrington. Benché entrambi fossero cresciuti a Brooklyn e non volessero andarsene, John aveva accettato un lavoro nel Montana e fatto trasferire la sua giovane famiglia a ovest. Scoprì che amava le montagne e i cieli aperti, ma Linda era frustrata e infelice. Tutto ciò divenne chiaro la sera in cui si recarono a una festa dei propri vicini.

Completamente diverso l’approccio del tell:

“Ti avevo detto che non volevo venirci,” disse Linda salendo a fianco di John i gradini della casa dei vicini. “Sarà noiosa come ogni altra festa alla quale siamo stati da quando siamo venuti a stare qui.”
“Un tempo le feste ti piacevano,” disse John evitando che i loro sguardi si incrociassero.
“Sì, be’, era così a Brooklyn. Ma il Montana non è Brooklyn.”
“No, non lo è.” disse lui guardando verso le montagne infiammate dal colore del sole che tramontava, il cielo che aveva iniziato ad amare. Poi scrutò Linda, che lo guardava in maniera minacciosa ancor prima di entrare. In cinque anni di matrimonio era così cambiata. Entrambi erano cambiati.
Lui premette il pulsante del campanello.

Non è difficile vedere la differenza no? Quando si tratta di scrivere un romanzo piuttosto lungo, con numerosi personaggi e avvenimenti le cose diventano un tantino più complicate. Ma spero che questo frammento di testo vi abbia chiarito che parliamo di un modo di scrivere, una modalità narrativa. Oggi la totalità o quasi delle scuole di scrittura creativa e dei critici considera lo show don’t tell una pietra base per la definizione di una buona scrittura. Naturalmente ci sono dei casi in cui è più opportuno raccontare, piuttosto che ricorrere allo show, se non altro perché altrimenti il libro diventerebbe davvero troppo lungo, ma in generale c’è una forte enfasi sulla necessità di utilizzare prevalentemente, se non sempre, la modalità del mostrare, a discapito del narrare. Questo influenza non solo la tecnica di scrittura, ma anche l’impostazione progettuale di un romanzo.

Ma torniamo a noi, anzi a me.

Baby Boomers

Baby BoomersMesi addietro ho sottoposto il mio romanzo alla valutazione di Extravergine d’autore, così come ho fatto con Fughe, la raccolta di racconti di fantascienza uscita ad aprile di questo stesso anno. L’obiettivo di queste valutazioni è individuare libri di autori indipendenti che abbiano una buona qualità, assegnando un marchio che ne attesti questa caratteristica. Ci è voluto un po’ di tempo per avere un responso ma alla fine Baby Boomers è stato bocciato, nonostante altre aspetti positivi, con due motivazioni, una delle quali non discuterò oggi, mentre l’altra riguardava lo stile di scrittura, considerato “descrittivo e didascalico“. Vi dice niente? Parliamo proprio dello show don’t tell. In un primo momento il sentimento prevalente è stato il disappunto, soprattutto per l’altro elemento di critica, di cui vi parlerò in un’altra occasione, poi è subentrata la fase dell’analisi.

Mi sono confrontato con diverse persone su questo aspetto del mio romanzo e con sfumature diverse alcune mi hanno confermato la presenza di questa problematica nel mio libro: troppo narrato, poco mostrato. Da qui una serie di riflessioni, tuttora in corso, su questo concetto. Ho messo in fila varie cose: il processo seguito nella scrittura; il lavoro fatto prima, durante e dopo l’editing; le mie sensazioni durante la lettura consapevole di quanto avevo scritto. Sto lentamente giungendo a delle conclusioni, ma non tutte, mi rendo conto, sono ortodosse, allineate al modo di pensare odierno. Dovrò fare delle scelte e, conoscendomi, saranno fasi di un percorso che mi porteranno in luoghi interessanti.

Prendiamo un brano del libro. Qui vengono introdotti due personaggi, uno dei quali sarà un protagonista importante: Mirko. La narrazione è dal suo punto di vista.

Mirko si guardò nello specchio insoddisfatto. Alessandro era stato chiaro: doveva indossare giacca e cravatta, non c’era stato verso di convincerlo altrimenti. Aveva organizzato un incontro con qualche pezzo grosso per un lavoro imprecisato, di cui non aveva voluto anticipare nulla, quindi lui avrebbe dovuto vestirsi di conseguenza. Gli rimaneva comunque il dubbio che Alessandro avesse detto così solo per il piacere di vederlo conciato in quel modo.
Qualche giacca nell’armadio c’era, ma di cravatte Mirko, che le odiava, ne possedeva solo due, ricevute in regalo da qualche parente e prontamente dimenticate nel fondo di un cassetto. Aveva accoppiato una camicia di cotone bianco con la giacca antracite e la cravatta rossa, ma non riusciva proprio a vedersi vestito da impiegato. Inoltre era magrissimo e il collo della camicia, che in genere avrebbe tenuto slacciato, era di gran lunga troppo largo, creando insieme alla cravatta un effetto non proprio elegante. Anche il cespuglio di capelli, proiettati in ogni direzione e del tutto refrattari al pettine, non lo aiutava a raggiungere il livello minimo di decenza necessario a presentarsi in pubblico.
Sbuffò disperato e decise che sarebbe dovuto andar bene così com’era. Non gli era rimasto molto tempo per raggiungere Alessandro davanti al Ministero, dove avevano appuntamento. Raccolse le sue cose e si avviò. Per fortuna aveva la moto, altrimenti non ci sarebbe stata possibilità di arrivare in orario.
Il viaggio su due ruote e soprattutto il casco non dovettero aiutare a rendere Mirko più presentabile, o almeno così lui poté dedurre dalla faccia con cui lo accolse Alessandro.
«Be’, almeno sei arrivato puntuale. Dai, andiamo, mentre facciamo tutta la trafila burocratica per entrare ti spiego alcune cose.»
Mirko lo seguì docile verso l’enorme ingresso del Ministero. Con Alessandro si conoscevano fin dai tempi della scuola media e, nonostante fossero molto diversi sia nel fisico sia nel carattere, sulle cose importanti della vita la pensavano in maniera molto simile.
«Ma di che si tratta?» chiese, mentre consegnavano i documenti al poliziotto del posto di guardia.
«Guarda, di preciso non lo so neanche io, ma un contatto interno con cui sono in buoni rapporti mi ha segnalato a questo assistente del sottosegretario, per un lavoro che lui ha definito delicato. Credo sia roba software comunque, altro non mi ha saputo dire. Ma, Mirko, se si entra nel giro qui, abbiamo svoltato, ché di soldi ce ne sono…»
Mirko annuì. Qualsiasi lavoro sarebbe andato bene, considerando che lui e Alessandro, nonostante fossero piuttosto bravi, riuscivano a sbarcare il lunario in maniera appena decente, passando da un lavoretto all’altro senza sufficiente continuità. Un contratto con un cliente del genere avrebbe rappresentato un deciso cambiamento nella loro vita e forse una base per ottenere in seguito incarichi più interessanti e meglio pagati. Chissà, magari avrebbero potuto comprare una casa loro, con un po’ di fortuna.

da “Baby Boomers

Ho evidenziato con un colore diverso il testo che più rappresenta la problematica del tell rispetto a un eventuale show. Di che si tratta in pratica? Ciò che accade a Mirko e Alessandro viene da me raccontato utilizzando il punto di vista di Mirko e la sua introspezione mentre si prepara all’appuntamento e via via nel corso dell’azione. Ecco le “…continue descrizioni e spiegazioni da parte dell’autore che spezzano troppo la lettura, danneggiando lo sviluppo della storia stessa“, parole del comitato di lettura di Extravergine, che di certo i miei amici editor sottoscriverebbero in larga parte. Queste situazioni, che effettivamente sono presenti in tutto il libro, con particolare concentrazione nella prima parte, non sono difficili da identificare e in generale non sono neanche troppo complicate da eliminare, volendo. L’ho fatto in effetti per molte parti durante un intero ciclo di revisione che ho dedicato proprio sulla riduzione del tell. Perché, è bene saperlo, nella prima stesura erano presenti in maniera molto più massiccia. Dunque, mi sono chiesto, se il problema era individuabile e risolvibile, perché non l’ho fatto? Alla fine sono arrivato alla conclusione che, pur non trattandosi di una decisione del tutto conscia, si possa dire che…

…non ho cambiato il testo perché mi piaceva così com’era.

Abbiamo prima analizzato il concetto di show don’t tell e deciso che il primo ha un impatto migliore sul lettore, lo coinvolge maggiormente, alleggerisce la presenza del narratore rendendo quindi meno evidente al lettore la finzione. Una posizione che in linea di principio mi convince. Ma allora, perché a me è piaciuto lasciarlo così? Per capirlo ho cercato di pensare a come sarebbe dovuto diventare il testo nel caso avessi voluto eliminare il narrato a favore del mostrato.

Avrei dovuto introdurre un dialogo in cui Alessandro ricordava a Mirko l’orario dell’appuntamento, gli raccomandava di indossare abiti adeguati, in particolare giacca e cravatta, gli spiegava che dovevano incontrare un pezzo grosso, tagliando poi corto con altre spiegazioni. Mirko da parte sua avrebbe dovuto lamentarsi per la costrizione dell’abito. Il colloquio già presente nel testo sarebbe dovuto essere allargato per includere delle considerazioni sulla speranza di sbarcare meglio il lunario, comprare casa e via dicendo. In pratica tutte le informazioni presentate nel testo sarebbero state immerse in azioni e dialogo. Niente di fantascientifico, né troppo impegnativo. Qualche informazione probabilmente l’avrei dovuta omettere, per esempio il fatto che fossero amici fin dal tempo della scuola, perché si sarebbe rischiato di far mangiare la foglia al lettore (che non è scemo), inserendo nel dialogo troppe spiegazioni (infodumping). Perché anche un dialogo può diventare narrare, se diventa innaturale e artificioso.

Quello che mi chiedo è se il risultato sarebbe stato davvero così diverso, per il lettore, rispetto a quello che ho scritto. Non ne sono troppo convinto, o meglio, sono certo che questa particolare situazione ne sarebbe uscita forse un pochino arricchita, ma non sono sicuro che sarebbe valsa la pena. Continuando l’auto analisi mi sono reso conto di un altro paradosso. Si potrebbe pensare a prima vista che il narrato sia più pedante, lento e noioso del mostrato, ma a guardar bene trasformare un passo come quello sopra per soddisfare l’esigenza di mostrare avrebbe trasformato poche righe in qualche pagina. C’è un aforisma famoso, mi pare della Austen, che recita:

Per quello che mi riguarda, se un libro è ben scritto, lo trovo sempre troppo corto.

Il problema è che io non la penso così. O meglio, non penso che “ben scritto” voglia dire mostrare in quattro pagine quello che si può narrare in mezza. Naturalmente posso avere torto marcio; inoltre questa è un’opinione da “lettore“, non avendo titolo per esprimermi come critico della scrittura. Tuttavia, rimane la mia opinione, da verificare caso per caso, ma in generale applicabile almeno in qualche situazione. Per me, come lettore, non è molto importante che il narratore sia poco ingombrante, che si defili, scompaia. Per me il narratore è un amico, di cui mi fido, e che sono disposto a seguire fino all’inferno. Se mi dice: “tra i due non correva buon sangue”, invece di spiattellarmi cinque pagine di noiose scaramucce tra i protagonisti, magari del tutto irrilevanti ai fini della trama, lo ringrazio sentitamente. Nel momento in cui decido di scrivere so di dovermi preoccupare anche degli altri lettori, ma sospetto di non essere l’unico a preferire un bilanciamento delle parti. D’altra parte anche molti autori sembrano avere un’idea piuttosto morbida sul concetto.

Passano altri due mesi. I tentativi del gruppo di utenti di raccogliere fondi non hanno avuto molto successo. Chi è disponibile a una donazione è stanco di sentir parlare di specie naturali in pericolo, figuriamoci di quelle artificiali, e i digienti sono tutt’altro che fotogenici come i delfini. Il flusso delle donazioni non è mai stato più di un rigagnolo.

da “Il ciclo di vita degli oggetti software” di Ted Chiang, edito da DelosBooks

Gran parte dei capitoli della seconda parte di questo romanzo breve inizia così, con la narrazione di cosa è successo tra la fine del precedente capitolo e l’inizio del seguente. Narrato senza ombra di dubbio, da una mezza pagina a un paio o più, prima di entrare nel vivo. Un difetto stilistico? Se così deve essere considerato, ciò non ha impedito a Chiang di guadagnarsi il premio Hugo nel 2011 proprio con questo romanzo. Il punto, in questo caso, è che per “mostrare” tutti gli inserti così narrati sarebbero state necessarie pagine e pagine, senza che queste svolgessero una funzione utile allo scopo dell’autore. Avrebbero anzi dirottato l’attenzione dalle scene importanti, che sono le uniche che Chiang mostra. Non so se la mia analisi è giusta e se la cosa è voluta dall’autore, ma la mia opinione di lettore è che questo modo funziona.

1448 giorno 81. Sembra verosimile che essi siano stati il frutto di un esperimento. L’idea è spiacevole. Ma ora che esistono le prove indicanti come la Colonia Terrestre sia stata un esperimento, la semina di un gruppo Hainita Normale su un mondo con i suoi proto-ominidi autoctoni, la possibilità non può essere ignorata. La manipolazione della genetica umana era praticata al di là di ogni dubbio dai Colonizzatori; niente altro può spiegare gli hilf di S o i degenerati ominidi alati di Rokanam; esiste qualche altra spiegazione plausibile della fisiologia sessuale dei getheniani? Un caso accidentale, è possibile; selezione naturale, è molto difficile. La loro ambivalenza sessuale ha poco valore di adattamento.

da “La mano sinistra delle tenebre” di Ursula Le Guin edito da TEA

In questo caso, seppure utilizzando il trucco di rendere il protagonista narratore attraverso la scrittura di una sorta di diario, abbiamo pagine e pagine di narrazione, spiegazioni, deduzioni e riflessioni, capitoli interi. Show don’t tell infranto e infodumping? Io non penso proprio, eppure formalmente si potrebbe dire così.

Potrei andare avanti con infiniti esempi, ma qui l’obiettivo non è giustificare le mie scelte appoggiandomi a ciò che hanno fatto o faranno autori prestigiosi. Quello che ho capito in questi miei ragionamenti è che ci sono molti modi per raggiungere il risultato, alcuni migliori, altri più difficili, altri all’apparenza impercorribili. Ciò che conta alla fine è l’effetto che ottieni sul lettore. Se riesci a ricreare in lui le emozioni, le riflessioni, i pensieri che avevi intenzione di sviluppare, allora sei riuscito nel tuo intento, altrimenti no. È così semplice, niente di più.

La tecnica dello show don’t tell è per me uno strumento efficace per coinvolgere il lettore, mantenere l’attenzione e arricchire personaggi e trama, ma non può e non deve diventare un fine. Non deve essere applicata perché va fatto, ma solo quando è utile. In futuro mi troverò di nuovo a dover decidere come portare avanti una storia e di certo farò attenzione a questi aspetti, ma non mi sentirò vincolato, quando mi sembrerà opportuno narrare, lo farò. Poiché questo mi viene segnalato dai tecnici come un punto debole della mia scrittura, cercherò di tenerlo sotto controllo, ma senza rinunciare a sviluppare un mio stile, magari di merda, ma mio.

Se avete letto Baby Boomers, mi farà piacere conoscere la vostra opinione su questa tematica, se il libro vi è piaciuto, se avete riscontrato il problema dell’eccessiva invadenza del narratore o meno. Vi ricordo anche che le recensioni su Amazon sono preziose, persino quelle negative. Dunque se avete letto i miei libri, siate gentili e spendete il tempo necessario a lasciare due righe su Amazon o sul circuito dove avete acquisito il libro. Le vostre opinioni sono importanti. Sono le stelle che ci aiutano nell’impostare la rotta.

Se scrivete, lasciate un commento su queste riflessioni, specialmente se a riguardo ne avete fatte anche voi, mi farebbe piacere sentire le vostre esperienze.