il-ciclo-di-vitaIl ciclo di vita degli oggetti software
Ted Chiang

Volevo leggere questo libro da un bel po’ di tempo e attendevo uno sconto sul prezzo del digitale, ma alla fine non ho resistito e mi sono preso il cartaceo. Che volete farci, non riesco proprio a mantenere una posizione radicale nella diatriba tra carta e bit.

L’ho letto in breve tempo, sia per la dimensione abbastanza ridotta, sia perché è uno di quei libri che si fa leggere e che scorrono senza pesare. Le uniche interruzioni le ho fatte perché sono rimasto sorpreso dallo stile di scrittura. Mi spiegherò meglio più avanti.

La storia è piuttosto lineare, direi semplice, e percorre l’esperienza di alcuni ricercatori nella programmazione di creature da far vivere in un ambiente virtuale, i digienti, e le successive vicissitudini dei protagonisti, in particolare Ana e un suo amico, nel tentare di far crescere questi esseri senzienti nonostante l’obsolescenza dell’ambiente virtuale che è loro necessario. Il procedere della storia, delle esigenze delle intelligenze artificiali, l’evoluzione dei sentimenti che si creano tra uomini e IA, sono ben pensati e si ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di assolutamente naturale e plausibile.

Forse è questo uno dei punti di forza, non ci sono voli di fantasia sfrenati né invenzioni spettacolari, almeno a mio parere c’è una storia che immagina qualcosa di assolutamente realistico, e forse in parte già realizzato o realizzabile. Ci sono gli abituali sentimenti umani, negli umani, e in parte anche nelle IA. C’è la tragedia di una specie che perde il suo bioma di riferimento e si ritrova a vivere in uno zoo virtuale, deserto e privo di vita. In breve ci ritroviamo coinvolti in questa storia, nella preoccupazione dei protagonisti, e cominciamo a provare affetto per quelle creaturine anche se virtuali. Le seguiamo nella ricerca di una trasformazione che comincia a farsi sempre più vicina alla realtà.

Insomma, il libro mi è piaciuto, anche se non è uno di quei testi che mi hanno colpito al cuore come mi è capitato con alcuni altri. Mi sono anche chiesto durante la lettura quanti critici avranno apprezzato il modo di scrivere di Chiang, il suo stile. Oltre a una certa freddezza espositiva, c’è un modo di narrare che, pure strumentale al genere di storia, rischia per risultare un po’ affrettato. Molti capitoli segnano un salto in avanti nel tempo della vicenda, anche di anni, e l’autore ogni volta parte narrando molto brevemente ciò che in quel lasso di tempo è accaduto. Mi sono soffermato su questa modalità, che in qualche modo va contro alcune delle regole che ci vengono insegnate oggi come pressoché sacre, e dopo averci riflettuto un po’, propendo per l’idea che a volte non c’è un modo migliore di procedere che narrare. A meno di non voler vedere crescere a dismisura il numero di pagine, senza di fatto introdurre alcun valore aggiunto se non quello di rispettare una convenzione. Forse per questo il romanzo supera di poco le centotrenta pagine. Ma su questo aspetto tornerò, perché anche io incorro in qualcosa del genere nella mia scrittura e devo ancora decidere quanta parte di ciò è male e quanta voglio invece conservare.

Ma ora chiudiamo il discorso sul libro di Chiang. Come dicevo l’ho letto con piacere e la storia mi ha conquistato, soprattutto mi ha dato da pensare. Se siete lettori curiosi, che non temono il rischio di perdere qualche ora in una lettura che magari potrebbero trovare un po’ strana, allora è qualcosa che dovreste provare a leggere.