Leggere questa lettera ha su di me un effetto particolare.

Perchè quella lettera potrei averla scritta io. La potrei firmare tranquillamente.

Chi non ha figli affetti da handicap non può sapere come funziona la scuola in questi casi.

Mia figlia ha gli stessi problemi di Luca Leone. Lei ora ha venti anni, ed abbiamo quindi alle spalle molti anni di scuola, molte esperienze negative e positive. Abbiamo visto il meccanismo del sostegno modificarsi negli anni, peggiorando continuamente.

Semplicemente venivano ridotti gli stanziamenti e modificate, in peggio, le regole. Mentre in passato si contavano gli studenti con handicap e di conseguenza si assegnavano i docenti di sostegno, ora si contano gli alunni nel loro insieme, si moltiplica questo totale per un coefficiente ottenendo magicamente un numero che è quello di insegnanti di sostegno che avranno il lavoro.

Nella pratica si è passati da un rapporto uno ad uno (un insegnante di sostegno per ogni alunno bisognoso), ad un rapporto uno a molti (un insegnante per due, tre, quattro alunni). Non è più il bisogno che guida, ma la disponibilità, con situazioni aberranti, come le scuole che cercano in ogni modo di scoraggiare le iscrizioni dei portatori di handicap e quelle che ne hanno fin troppi (e quindi in rapporto hanno meno docenti di sostegno), con sperequazioni incredibili tra territorio e territorio.

Ma non basta, è stato cambiato anche il criterio con cui vengono scelti gli insegnanti di sostegno. Ora spesso un docente sceglie il sostegno solo come ripiego, quando non riesce ad ottenere lavoro come insegnante “normale”, affrontando un lavoro assolutamente sfidante e difficilissimo senza un’adeguata preparazione e motivazione. Ed i risultati sono sconfortanti.

Magari qualcuno avrà il coraggio di chiamare “taglio agli sprechi” questa diminuzione di spesa, ma io penso sia semplicemente parte di quel fenomeno globale di regressione della solidarietà civile che sta attraversando tutto il mondo occidentale. E non è bello da vedere da dentro questo paio di scarpe.
I miei guai sono solo miei, lo stato mi aiuta, un pochino, ma non troppo e comunque ogni anno sempre meno.

L’angoscia di Ivana Leone è ampliamente giustificata. Proprio nel caso di alunni affetti da ritardi cognitivi il sostegno svolge un ruolo essenziale. Questi ragazzi infatti spesso hanno più potenzialità di quello che può apparire a prima vista, in alcuni casi si tratta di sindromi border line che con un adeguato sostegno familiare e scolastico possono permettere lo sviluppo di una persona indipendente, pienamente autonoma. Sarebbe conveniente anche economicamente per la società che lo diventassero.

Quando leggo le dichiarazioni di politici che sventolano come una bandiera la difesa della vita a tutti i costi mi chiedo quanto siano sinceri. Se volessero davvero combattere l’aborto dovrebbero lottare in parlamento contro leggi e regolamenti come quelli che hanno permesso negli ultimi 15 anni il progressivo deupaperamento degli aiuti ad handicappati e disagiati, non solo in ambito scolastico.

Ma non lo fanno, mai, nessuno. Sono solo “chiacchiere e distintivo”. Per questo penso che nessun politico rispondera fattivamente a quella lettera, magari risolveranno il problema singolo di Ivana (e ben venga), ma non quello globale.

Ad Ivana, ed a tutti gli altri genitori nella stessa condizione, va dunque tutto il mio affetto, la mia comprensione, la mia stima, ed un consiglio, che vale poco, ma è l’unica cosa che posso dare…

Non accontentarti mai, lotta, urla, fai casino, rompi l’anima fino a diventare esasperante ed antipatica. Lo so che è difficile cambiare la propria natura, ma ci sono spesso modi trasversali, faticosi per il dirigente e la scuola, per ottenere magari un docente in più, per richiamare i docenti “normali” al loro dovere (perchè l’handicappato anche se seguito da un docente di sostegno, non devono abbandonarlo).

Non farti blandire dal “passi domani“, spesso per ottenere qualcosa dovrai strapparlo con gli artigli e le zanne (non unghie e denti, si diventa tigri dopo un po)….

Non mollare, vale la pena di lottare, sempre.